Di genitori sardi, Giuseppe è nato nel 1982 e ha sempre vissuto a Formigine. Di formazione classica, sì è laureato in Scienze politiche all’Università di Bologna, in anni in cui maturò posizioni politiche di estrema sinistra vicine all’anarchismo individualista. Ha lavorato in banca, al servizio civile e nella redazione di Nostro tempo; prima di dedicarsi all’insegnamento della Storia in un istituto privato e di fare l’educatore, da sempre sua principale occupazione, ha fatto l’investigatore privato. Convertito alla fede cattolica tra il 2007 e il 2009, ha incontrato la Spei alla prima presentazione pubblica di Credere nel cambiamento.
Come e quando hai conosciuto la Spei?
L’ho conosciuta alla vigilia del tuo compleanno, il 25 febbraio 2015, quando sono venuto alla presentazione del tuo libro, la prima che facevi. L’occasione è stata quella, anche se in verità avevo già visto il libro all’Agorà di Formigine. Non avevo capito assolutamente di cosa trattasse, l’avevo solo sfogliato.
Come ti è sembrata quella prima presentazione?
Della presentazione ho vissuto soprattutto il fatto di vedere che la tua vita si era aggiustata. Ero contento di questo. Ho seguito la presentazione con curiosità, ma probabilmente senza uno sguardo freddo. Quando hai letto l’ultimo passo del libro, la poesia “Presepe”, ho scoperto che aspettavi un figlio.
Che impressione ti ha fatto Stefano?
L’impressione che mi fa sempre: una persona un po’ incircoscrivibile. Da quella serata, in verità, sono uscito con una grande dolcezza e un senso di possibilità.
Dopo hai letto il libro?
L’ho letto e l’ho fatto un po’ girare, prestandolo a un paio di persone. Devo essere sincero, forse mi ha colpito più la serata delle pagine scritte. A Fiorano si è parlato più di te e del progetto in generale: è emersa una sensazione di stupore. La cosa bella del libro è anche quella di tenere una sorta di registro di tutte le persone che incrociano la vostra storia, in chiave di memoria. Quella è proprio un’idea bella: bisognerebbe sempre aggiornarlo.
[Cinque minuti a parlare della mappa] A chi hai passato il libro?
A due colleghi della Città dei Ragazzi, dove lavoro. Uno [prof. Borsari] se ne è innamorato, tanto che me l’ha sequestrato e deve ancora restituirlo. Credo non lo farà mai, ma prima o poi verrà a una presentazione, lo invito sempre: insegna automazione industriale, potremmo presentare il vostro progetto agli allievi. Adesso come siete messi?
Molto meglio di due mesi fa, ma alcuni dipendenti sono in cassa integrazione. Abbiamo due nuovi clienti, uno pescato alla presentazione del libro al Mabic di Maranello, c’eri anche tu. Hai avuto altri rapporti con la Spei, oltre agli eventi?
Una volta hai pubblicato su Facebook una foto con scritto “fans”. Ecco, io mi ritengo un ultrà della Spei. Per il momento sono un fiancheggiatore. Sto un po’ fuori, di fatto, ma per quello che riesco seguo e partecipo.
Se non sbaglio avevi proposto una presentazione del libro a Formigine…
L’avevo proposta io, e la faremo ai Magazzini San Pietro, in collaborazione con la Libreria Agorà. Sto facendo decantare alcune idee. L’indecifrabilità di Stefano può essere un rischio di indecifrabilità del progetto, per chi non lo conosce. Nel senso che bisogna capire se presentare il libro, la ditta, o coinvolgere gli invitati nel progetto.
Parli di indecifrabilità. Che idea ti sei fatto della Spei?
La sensazione con cui tornai a casa la sera della presentazione era quella che si prova a seguito di un’esperienza fondamentalmente toccante. Quindi qualcosa di “non imprenditoriale”, neanche di taglio sociale sul genere Olivetti o simili, perché sentire parlare un imprenditore della Madonna e di Cristo in quei termini è difficile, secondo me. Chiunque, qualunque imprenditore anche illuminato, o con vocazione, o “d’area”, tiene sempre ben separati i campi: è secolarizzato. Della Spei ho avuto l’impressione di un’esperienza estremamente confusionaria, non di compromesso.
In che senso “confusionaria”?
Confusionaria nel senso che io per primo non riesco a capire come faccia a sopravvivere una cosa del genere, che prospettive future abbia. Forse ho una serie di paletti che mi impigliano. Però è stato toccante. L’aggettivo più calzante è proprio “toccante”. La cosa che mi è rimasta è quella di un uomo che ha fatto un’esperienza di tipo spirituale la quale lo porta ad una gratitudine tale per cui non gli importa di mettere davanti alla conservazione dei propri interessi e della propria sopravvivenza quello che ha ricevuto. La declinazione di questo nella pratica lavorativa ancora mi sfugge: a livello inconscio penso sia ancora impraticabile, anche se effettivamente lo è.
Come hai presentato la Spei ai tuoi due colleghi?
Sia ai miei colleghi che agli ingegneri ai quali ho parlato del progetto ho detto che si tratta di un’azienda il cui titolare ha avuto una conversione fortissima e che tenta di agire in conversazione con l’Altissimo, sostanzialmente. Una cosa che spiazza e in certe situazioni mette in ridicolo, però nel momento in cui uno lo sa è disposto ad accettarlo piuttosto che respingerlo.
Secondo te la “conversazione con l’Altissimo” è una cosa diretta, come don Camillo col crocifisso?
Penso che ognuno comunichi in maniera diversa con Dio. È chiaro che non so se pensare a un dialogo alla Guareschi o a un dialogo che salta fuori nella preghiera, come vale per me. Però, onestamente, non mi stupirebbe né lo troverei imbarazzante se avvenisse alla Guareschi. Se una persona mi dice una cosa, di base le credo. Quando Stefano ha presentato l’iniziativa a Fiorano ha detto che si confrontava in maniera quasi diretta: magari se glielo domandassi a tu per tu potrebbe dirmi che il dialogo viene dalla preghiera…
O attraverso dei segni…
Esatto. Però non è detto che una cosa sia più accettabile dell’altra. O presentabile dell’altra. Dire di avere un dialogo con Dio è sempre e comunque impresentabile.
E se ciò avvenisse con Maria piuttosto che con Dio? Farebbe qualche differenza? Ricordo l’impostazione di quella prima presentazione, fu molto mariana.
Mi viene ancora più semplice accettare un dialogo con Maria piuttosto che con Dio, perché ho sempre visto la Madonna come mediatrice. Dio a volte parla, secondo me, con eccessivo vigore, mentre la Madonna è più una mamma: che media, che accoglie, e sicuramente ha un rapporto privilegiato col mondo del lavoro, coi poveri, con chi ha bisogno. Chiaro che anche l’idea di una conversazione con la Madonna è impresentabile: non è che puoi conversarne a cena senza imbarazzare i tuoi interlocutori. Per questo quando parlo della Spei dico subito: «Il titolare parla con la Madonna»; se devono sentirselo dire poi, tanto meglio che glielo dica io subito.
Tu ci credi dunque?
Sì. Perché dovrebbe dirmi una balla? Poi Stefano è una persona seria. Onestamente, credo anche a Paolo Brosio, per quanto il suo mondo… Non c’è guadagno a dire cose una cosa del genere.
Sei mai stato a Medjugoje?
No, non sono mai stato in nessun luogo di apparizioni. Anche se sono più affezionato al rosario che ai salmi.
Oltre alle presentazioni hai avuto altri rapporti con la Spei?
Sono venuto all’incontro di Maranello, a un apericena, e una volta con te, in ufficio, a incontrare Stefano. Volevo conoscerlo meglio, e poi parlare della presentazione a Formigine.
Quindi un colloquio vero e proprio a tu per tu con Stefano non l’hai mai fatto.
No, quello “imbarazzante” non l’ho fatto.
Dovrai farlo, e poi fare un’altra intervista…
Mi presto, mi presto. Ho la curiosità di conoscerlo in un colloquio individuale.
Ti è piaciuto quell’incontro?
Mi ha mezzo [scazzato] perché mi ha ricevuto con quaranta minuti di ritardo, e poi m’è dispiaciuto perché non avevo più tempo materiale per star lì. L’incontro più saliente è stato alla prima presentazione, a Fiorano. Quello mi ha toccato di più: a Maranello ero già pronto, sapevo cosa aspettarmi, a Fiorano no: lì ho sposato il progetto. A Maranello ero già dall’altra parte della barricata, ero già supporter, venivo anche solo per esserci, per far numero. È interessante che ai vostri incontri, che rischiano regolarmente di essere dei buchi nell’acqua – vale anche per gli autori importanti – viene sempre tanta gente, anche affezionate: questo dà forza, perché le persone vengono anche solo per stare con te.
Secondo te le persone vengono perché gli piace sentir parlare di Gesù? Della sua vicinanza?
Io vengo due volte, tre, e vengono con me delle amiche, perché primo fa piacere vedere una persona amica dentro un progetto bello, secondo perché si ha bisogno di qualcosa di bello. Per quanto mi riguarda, sentire parlare di Dio è nutriente, mi rende felice, perché sono uno che non sa se Dio esiste. Non ne ho la certezza. Lo so a intermittenza. Per cui quando questa certezza viene a mancare, come nei Karamazov, la situazione diventa smontante. In quei momenti è importante incontrare persone che ne abbiano la certezza: mi rincuora, mi incoraggia. Secondo me questa dimensione c’è in tutti: sentire la presenza di Dio attraverso le persone che lo vedono, che lo sentono, che lo vivono, che lo pregano, che lo lodano. Magari in occasioni del genere, piuttosto che in una Messa, si può avere l’impressione di avere un contatto diretto. Una testimonianza.
Anche rispetto a una Messa?
Sì. Forse una persona che si è allontanata dalla Liturgia, che per me è la cosa fondante, deve sentire una testimonianza. È stata la testimonianza che ha convertito. Sempre. Quindi si viene ai vostri incontri anche per cercare una testimonianza. L’evangelizzazione è sempre stata così, a partire da [quel povero sfigato di] Paolo che girava in barca a raccontare come un disperato e implorava la gente a convertirsi. Poi è bello fare esperienza di cose belle, si ha voglia di cose belle, per quanto uno possa essere cinico, crudele e spietato come lo sono io. Preferisco sentire storie belle che storie brutte, e storie vere.
[All’ultimo incontro ha parlato Oana, che ha raccontato quello che aveva già detto nell’intervista del libro. È stata toccante: risentirla è stato bellissimo, spero ritorni a parlare.
Quando farete altre presentazioni?
Ne faremo una a Monchio, da don Carlo Bertacchini, e una a Mirandola, a settembre, con il comune.
Voi dovreste parlare con don Filippo Serafini, è parroco in montagna non so dove. Sarà sicuramente disponibile.
Facciamo un po’ fatica con la Chiesa. Stefano è abituato a poche mediazioni, né a cercare la Chiesa, a partecipare, anche per avere contatti e presentare la Spei. Andammo dal vescovo di Imola, esaltatissimo, che ci rimandò nella Diocesi di Modena, dal vescovo Verucchi. Lui segue Stefano, però è innegabile che…
… Manca una vera e propria integrazione.
Esatto.
Lui vorrebbe che la diocesi sposasse completamente tutta la Spei, che mettesse dei soldi…
Sì, ed è impensabile. E forse non sarebbe neanche giusto. Ma non solo. Stefano vorrebbe che la Chiesa ci chiamasse a parlare ovunque, a mo’ di imprimatur. Fatto sta che in questo facciamo fatica. Stefano inoltre è molto attento alle apparizioni, vere o presunte o condannate che siano. Al di là di Medjugorje, in generale, si è imbarcato nella storia di Gargallo, una serie di false apparizioni sconfessate dalla Diocesi di Carpi dopo un’indagine ufficiale. C’è poco da fare, Stefano va dietro a queste cose: nonostante la Chiesa abbia detto «Nulla di soprannaturale» può anche pensare che si sia sbagliata. Questo è quello che non mi convince della Spei: Stefano manca di docilità.
Conoscete Biagio Conte? È un missionario siciliano, convertitosi ad Assisi. Quando tornò in Sicilia, decise di mettersi al servizio dei barboni, senza istituzionalizzare nulla, fino ad oggi. Ha assunto i voti ma non ha fondato alcun ordine, né è sacerdote, perché l’avrebbe vissuto come peccato d’orgoglio. Finì sulla sedia a rotelle, sfiancato dal lavoro, e tre quattro anni fa fu guarito a Lourdes. Secondo me è un personaggio interessante, perché è un francescano puro, rifiutando qualunque tipo di istituzionalizzazione: non perché non volesse sottomettersi alla Chiesa, ma per l’esatto contrario: non voleva in alcun modo pesare su qualcosa che non fosse la Provvidenza. Stefano questa dimensione un po’ ce l’ha. Se parli di docilità, Biagio Conte è un esempio.
Secondo me, Stefano dovrebbe essere docile e testimoniare la docilità, per essere davvero pieno. Quando non si è docili, si rischia di mandare tutto all’aria: non in senso economico, ma spirituale, che è peggio. Bisogna desiderare ardentemente di stare dentro la Chiesa, e magari cambiare anche certe cose: qualunque cosa la Chiesa chiedesse di cambiare, anche per puro esercizio di autorità. Nelle storie dei santi ci sono episodi del genere, e i santi hanno sempre obbedito. Questo è un giudizio mio.
Effettivamente questo è un aspetto importante. Suggerivo don Filippo perché lui ha questa sensibilità e ascolta, ascolta sempre. Sembra il prete di Bernanos. Secondo me Stefano potrebbe incontrare anche delle persone autorevoli dal punto di vista della fede.]
Hai detto che la conversione nasce dalla testimonianza. Ti faccio l’ultima domanda: l’incontro con la Spei ti ha cambiato in qualcosa, ha avuto una rilevanza per te?
Ti confesso che la notte in cui tornai a casa dalla presentazione di Fiorano ho pensato che tutto fosse possibile, e il giorno successivo, in un periodo completamente buio, come lo è tuttora per me, ho osato in maniera incosciente un’azione che pensavo benedetta, ed è andata [a puttane] male. Però sono fiducioso: mentre te ne parlo so che quell’incontro conterà nella mia vita. Come tanti altri, non voglio dire che abbia un peso specifico superiore a tanti altri incontri fatti; ma è stato un incontro che secondo me conterà. E ci voglio tornare. L’idea di rincontrare Stefano mi interessa, così come voglio mantenere il rapporto con la Spei. E organizzare la presentazione del libro a Formigine.
03/07/2015