Originario del Brasile, Mardson ha trentatre anni e vive in Italia da quando era bambino. Ha viaggiato moltissimo, lungo tutta l’Italia. Appassionato di motori, aerografia e meccanica, dopo una lunga serie di lavori e l’esperienza alla Spei lavora come disegnatore in una ditta di Maranello con un contratto a tempo indeterminato. Da alcuni anni vive in affitto a Fiorano Modenese con la sua ragazza.
Come sei arrivato a Modena?
Ho lasciato le Marche e i miei genitori, che sono separati, quando avevo sedici anni, per raggiungere nel modenese uno zio meccanico. I miei lavoravano nel settore della ristorazione, ci sono cresciuto ma non mi è mai piaciuto molto: ero appassionato di meccanica.
L’hai anche studiata?
Ci ho messo tanto tempo e molta energia. Nelle Marche avevo iniziato le scuole professionali, poi la fretta di lavorare, di crescere, di essere indipendente, mi fece andar via. Uno zio a Sassuolo aveva un’officina meccanica, così decisi di mollare tutto per andare a lavorare. Stetti con lui quattro o cinque anni, fino al 2002, quando la ditta chiuse, senza contare l’esperienza di un anno come orafo in Toscana.
Quando sei andato via dalle Marche i tuoi erano d’accordo?
Abbiamo parlato, cercato di capire. Non è stato facile. Un anno prima di partire definitivamente, avevo già vissuto del tempo a Modena: fu un anno sabbatico, non riuscivo a farmi assumere da nessuna parte perché avevo quindici anni, così dopo quattro mesi tornai a casa. Lì trovai lavoro per due anni in una ditta di carpenteria, c’erano molte cose da fare per la ricostruzione dal terremoto del 1997.
Non hai terminato gli studi?
Ho finito la scuola molti anni dopo, alle serali del Corni a Modena. M’ero reso conto di aver bisogno del diploma, ne sentivo l’esigenza. Fu molto dura. Avevo iniziato le scuole professionali un anno dopo le medie, non ebbi il coraggio di buttarmi nell’arte, a cui sono molto appassionato: faccio aerografia, il disegno sulle carrozzerie di moto, caschi e macchine da corsa. Tra mille difficoltà, riuscii a concludere il terzo anno alle serali, anche se era molto difficile studiare dopo dieci ore di lavoro al giorno. Il quarto e il quinto anno furono ancora più duri: mio zio aveva chiuso la ditta, e dovetti cercare un altro lavoro. Trovai come montatore di macchinari in una ceramica: a fine serata ero talmente stanco che volevo solo dormire; studiare era dura anche fisicamente, e per tre anni venni bocciato. Ma desideravo ancora fare il disegnatore, così decisi di impegnarmi al massimo: la mia fidanzata di allora mi diede tanto coraggio e riuscii a trovare lavoro come operatore della macchina taglio laser in una ditta di Fiorano, lavoro che mi ha permesso di andare avanti con gli studi e prendere il diploma nel 2009. Quando la ditta per cui lavoravo chiuse i battenti, avevo un diploma in mano: c’era già una gran crisi, anche nel settore meccanico, così decisi di tirar fuori le capacità che avevo imparato dalla vita in famiglia: il lavoro di cameriere e la conoscenza del portoghese.
Quindi hai ricominciato come cameriere?
Sì, nel giro di una settimana trovai un posto in un ristorante di Ubersetto, dove rimasi alcuni anni. Il proprietario aveva un locale in gestione anche sul Lago di Garda, all’interno di un campeggio: in estate andavo lì. Inizialmente mi trovavo molto bene. E poi, nello stesso periodo, trovai altri due lavoretti: davo alcune lezioni di portoghese a un ragazzo universitario e facevo esperienza in un’officina, dentro un ufficio tecnico, a titolo gratuito: stetti lì qualche mese. E poi viene il bello. Nel curriculum avevo citato la mia passione per i motori e per la capoeira, quando mi chiamò la Ferrari per fare da guida dentro il suo museo; ero felice, e allo stesso tempo spaventato: accettai la sfida, e tuttora collaboro con loro.
Alla Spei come sei capitato?
Stava cominciando la mia seconda stagione di lavoro al Lago di Garda. Molto divertente ma, come dicevo, la ristorazione non era il “mio” settore. Stavo comunque ottenendo buoni risultati, tanto da attirare l’invidia di altri dipendenti, per quanto fosse noto a tutti che stavo cercando di trovare un posto nel mio settore, la meccanica. Cominciai ad avere problemi con molta gente, l’attrito coi colleghi aumentava. Da un certo periodo presi le difese di una cameriera, che non veniva trattata molto bene. C’erano personaggi strani, con pensieri ed atteggiamenti strani – un marocchino e un egiziano con una concezione un po’ diversa, anche della donna, che consideravano inferiore. Comunque, mi misi dalla parte della ragazza. Fino a quando non dovetti licenziarmi: i capi non riuscivano più a gestire i dissidi tra i dipendenti, e al di là delle ragioni, sapevo che per loro era più facile sostituire un cameriere piuttosto che un cuoco. La ragazza lasciò Mantova e venne via con me, perché intanto era nato qualcosa tra noi…
Ed eri disoccupato.
Sì. Fu in quel periodo che mi chiamò [Samir Nouri], un vecchio compagno di classe, che aveva lavorato alla Spei. Lo hai intervistato?
No, e non sembra ne abbia una gran voglia…
Ognuno sa di casa propria. Sono qui a parlare con te perché sono curioso, può sempre nascere del bene conoscendo una persona. Qualche volta si “accende qualcosa”che ti fa dire «Cavolo, lo posso fare anch’io!», mentre invece, di solito tutti dicono «Non posso, non ce la faccio», e si lasciano prendere dallo sconforto. La religione, Dio, Maria, non sono una cosa così lontana: loro ti danno delle potenzialità e la forza di andare avanti, uno deve solo “prendere e andare”. Quello che ti succede, le persone, i luoghi, fanno tutti parte di un progetto: bisogna aver coraggio e andare avanti. Ma non tutti lo fanno, anzi, solo una minima parte: in Brasile si dice che “Dio scrive dritto su linee storte”; significa che ognuno ha il proprio destino. Qualche anno fa andai a fare un giro in moto a Maranello, con un mio amico: feci un incidente, volai sul cofano di un auto e feci varie capovolte in terra con la moto. Non mi feci niente di niente, anche se avrei potuto morire o uscirne davvero rovinato. Se sono ancora vivo significa che c’è un destino, che c’è qualcosa, e che ho una missione: far star bene me stesso e gli altri, portare avanti dei concetti e dei discorsi. C’è un progetto per tutti.
Perché Samir ti ha chiamato alla Spei?
Quando mi ha chiamato non lavorava più lì da almeno un paio d’anni, ma sapeva che ero a casa da lavorare. Mi chiamò e mi disse di provare a sentire Pesaresi. Sarà stato il 2011… L’ho chiamato più volte, e finalmente, un giorno, sono riuscito a parlargli.
Hai fatto il colloquio.
Sì. E poi sono partito con l’esperienza in Spei.
Lavoravi come disegnatore meccanico?
Sì, ma non sono stato assunto. Stefano non ci è mai riuscito, non si sono mai incastrati i fatti come dovevano incastrarsi… Ho portato avanti qualche progetto, che non so neanche se siano stati conclusi o meno. Stefano è riuscito a farmi fare un po’ di esperienza alla CNH. È stato importante per me il fatto di assimilare qualcosa dai programmi di progettazione, Pro-E e Solidworks… e un po’ anche con Catia…
Quanti mesi sei stato alla Spei?
Cinque o sei.
Eri pagato?
No. Non ho mai ricevuto niente.
Hai mai chiesto niente?
Quando ho cominciato avevo ancora il sussidio di disoccupazione, e poi avevo messo un po’ di soldi da parte. Tiravo avanti così. Inizialmente pensavo solo di fare un’esperienza in più. Da quello che avevo capito, Samir s’era trovato bene con Stefano, era pure stato mandato a lavorare alla Sorin… Però, effettivamente, dopo qualche mese alla Spei ho iniziato a soffrire un po’, dopo Natale: era finito il sussidio e stavo bruciando i risparmi… Dopo un po’ diventa dura. Comunque, non arrivava un lavoro per me: CNH, il nostro maggior cliente, tagliava personale; nella stessa Spei qualcuno lavorava e qualcuno no.
Chi c’era in ufficio in quel periodo?
C’erano Aziz, Luana, Oana, arrivata poco tempo dopo di me, Mosè, Marco [Sacchetti] e Mirko [Degli Esposti].
In che rapporti eri con Stefano?
Era molto spirituale, immagino lo sia ancora. Era molto convinto di quello che diceva e di quello che pensava. Molto “dritto per dritto”. Forse non eravamo molto in sintonia come pensiero. Molte volte mi sembrava troppo “fisso”, troppo “netto”, della serie “o così o niente”.
In quali ambiti?
Un po’ in generale, non solo sul lavoro. Su tutto. Ci si rapportava in generale, su varie questioni: per esempio sul fatto del matrimonio, dei figli, perchè convivevo.
Cosa diceva?
Che dovevo metter su famiglia, fare dei passi avanti… Sposarmi, fare dei figli…
Quando lo diceva?
Quando se ne parlava, tra di noi ma anche di fronte agli altri. Aveva delle idee molto chiare, molto “fisse”. Sposarsi o fare figli, oggi come oggi, è molto difficile: un minimo di base per una famiglia bisogna averla. E poi ci sono altre questioni: se una persona è cresciuta in un ambiente famigliare in cui aveva abbastanza o aveva tutto, allora diventa un po’ più facile pensare: «Come sono venuto su io, può venire su anche mio figlio». Io però nella vita ho sempre fatto fatica ad andare avanti, non ho ricevuto un granché di aiuto o di spinte: ho lavorato, studiato, risparmiato, tirato avanti tutto da solo… Come puoi pretendere di sposarti, avere un figlio? Ho i miei genitori a trecento chilometri di distanza, la mia compagna anche, e non sta lavorando. Viviamo in affitto. A me si è già spostato il terreno da sotto i piedi diverse volte, so cosa significa trovarsi a piedi [col culo a terra].
Non fai passi avanti perché non hai stabilità economica?
Sì. Ci vogliono stabilità economiche e di altro tipo.
Ti davano fastidio le “intromissioni” di Stefano?
A me no. Sono una persona che “lascia correre” e non si lascia influenzare; ho i miei pensieri, le mie credenze e capisco il pensiero degli altri… Vedevo però che altre persone, alla Spei, rimanevano un po’ “basite” dagli atteggiamenti di Stefano, per diverse cose.
Ad esempio?
Le persone dentro la Spei erano un po’ frustrate dal mondo. Mi sembrava di sentire che gli altri non avevano troppa fiducia, erano giù.
Uno dei compiti della Spei è proprio quella di accogliere persone così per aiutarle a migliorare. Arriva gente senza fiducia che nel tempo è aiutata a riacquistarla. Tra questa mi ci metto anch’io: non avevo alcuna fiducia nel mondo del lavoro… Avevo poca fiducia in generale, una spiritualità non più vissuta. Vedevo cambiamenti, me compreso.
Io rimango sempre deluso, ma non dalla Spei: in generale. Vedo gente che ha potenzialità incredibili ma non riesce a tirarsi fuori. Tu dici che eri deluso dal sistema, ma il sistema siamo noi, è questo il problema: la delusione è una delusione di se stessi. Ho molti amici che sono così, rassegnati, non reagiscono. Ma bisogna reagire.
Come è finita la tua esperienza alla Spei?
Un giorno mi ha richiamato Samir, sempre lui. Mi ha chiesto se ero ancora alla Spei, e mi invitò a fare un colloquio in una ditta di attrezzature tecniche per l’automotive [lavoriamo per Ferrari, Maserati e CNH]. Ho fatto qualche settimana di prova e sono stato assunto. Ora ho un contratto a tempo indeterminato.
Allora puoi sposarti!
Vedremo cosa ci riserva il futuro…
Ultima domanda: un giudizio sulla Spei, molto liberamente.
Nelle condizioni del momento, l’errore di tante persone è volere spiegazione da tutto. E quando non si trovano si comincia a dar colpe al primo che capita.
Vuoi dire che Stefano fa così?
No. La Spei mi sembra una situazione positiva.
Hai un “però” scritto in faccia.
Le manca qualcosa, va sviluppata. Non è un posto diverso dagli altri, non è speciale. È speciale nel momento in cui Stefano o i suoi componenti possono provare a farne qualcosa di speciale, ma se quando chi c’è dentro non riesce a svilupparsi, a esprimersi, la Spei non è niente.
Tu non sei riuscito a svilupparti lì dentro?
No, io ero già a posto. Ero già pronto al fatto che se non fosse andata bene alla Spei avrei trovato altro. Sono rimasto varie volte appiedato, ma ho sempre avuto un piano di emergenza: rimettermi nella ristorazione, andare all’estero.
Stefano ti diceva di non preoccuparti del futuro, che pensa a tutto la Provvidenza, anche ai soldi?
Anche Stefano iniziava ad essere preoccupato della ditta e di chi c’era dentro. A volte è difficile prendere delle persone che vengono da realtà completamente differenti e riuscire ad indirizzarle. Ecco, forse è quello che non mi convince della Spei.
Molti ci sono riusciti, ad esempio Oana…
Ma Oana cosa voleva quando è arrivata alla Spei?
Un qualunque lavoro.
E Aziz cosa voleva?
Anche.
E Luana?
Un lavoro anche lei. Col tempo è diventata amministratrice, è professionalmente cresciuta, anche se non era il “suo”lavoro. Ha fatto molti cambiamenti, anche dal punto di vista umano: sono alla Spei da pochi mesi, e all’inizio me la ricordavo un po’ burbera; col tempo l’ho vista, anche nei miei confronti, proprio materna. Altra storia di cambiamento è quella di Enzo: da quando è arrivato, porta in giro per le ditte, come commerciale, la storia propria e della Spei… Davvero gente che è rinata, e mi ci metto anch’io.
E poi… Forse alla Spei va staccato un po’ di più il “discorso lavoro” da quello personale. Cosa dici tu?
Dipende dalle persone. A me ha fatto molto bene che i due “discorsi” non fossero separati. Con altri vedo che Stefano fa male per i modi che usa, non per il farli in sé. A volte il modo sbagliato falsa tutto; se invece una cosa è detta con carità, umilmente, fa bene. I consigli che Stefano dà al prossimo dovrebbe darli chiunque, anche io: non è un santo né un santone. Mi sembra di intuire che forse con te è stato troppo “pesante” su alcuni punti, della serie «Cambia lì, cambia qui». E magari aveva anche ragione, ma ha sbagliato i modi; è stato troppo duro senza avere molta confidenza.
Io bado poco a queste cose, ma mi sembrava che ad altre persone desse un po’ fastidio.
E comunque di soldi non ne hai mai ricevuti.
No. Quello che chiedevo è arrivato alla fine dell’esperienza, quando gli feci capire che mi serviva un’assunzione e uno stipendio, perché di lì a poco avrei finito i miei risparmi e volente o nolente avrei dovuto lasciare la Spei e cercare altro. Non potevo andare avanti così.
E lui cosa disse?
Era abbastanza convinto che le cose si sarebbero sistemate, che qualcosa si sarebbe mosso con le aziende con cui lavorava, soprattutto la CNH. Secondo me non ha preso molto bene il fatto che sono andato via e sono andato a Maranello in un’altra ditta.
Sei rimasto in buoni rapporti con lui?
Poco.
Forse perché non prese bene il tuo addio?
Perché mi stava formando… Anche a me dispiacque andare via dalla Spei, ma non avere lo stipendio… Ci sono dei passi che vanno fatti al momento giusto.
Ma non c’è rancore tra di voi.
No. Anzi, per quello che fa, per me è una persona squisita. Soprattutto quando riesce.
Comunque, in quei mesi d’ufficio sei riuscito a cogliere la “missione Spei” di aiuto degli altri? Partendo dal fatto che Stefano non assume professionisti, ma gente da formare.
Sì… Stefano era rimasto deluso, nel passato, da persone brave che lavorarono con lui: ebbe diversi rancori, diverse critiche e rancori verso altre persone. Lui fa abbastanza fatica a dimenticare e a lasciar passare, a volte è un po’ legato al passato: chiude la pagina tenendo presente quello che c’è scritto dietro. Io cerco di non guardare indietro. Ho subìto diverse cattiverie, ho portato rancori: ma quando c’è da chiudere una pagina, la pagina va chiusa davvero. Bisogna sempre guardare avanti. [Hai mai letto Coelho? Consiglio “Il manuale del guerriero della luce”, una sorta di manuale comportamentale; anche lui è una persona molto spirituale. Si dice che uno possa aprire una pagina a caso del libro, e quello ti dà delle risposte, sempre. La vita per me è come prendere dei sassolini e buttarli nell’acqua; butti i sassolini e poi guardi le onde: le onde sono quello che succede. In un suo libro, Coelho scriveva di un prete che camminando per strada trovava sempre qualcuno che aveva bisogno; questo prete, alle volte metteva le mani nella tasca destra, altre volte in quella sinistra: nella destra aveva sempre qualcosa, in quella sinistra non aveva niente: ma ad ogni modo avrebbe sempre aiutato la persona che aveva davanti.]